Perchè è cosi difficile accettare i nostri errori? Che senso ha la quotidiana tendenza a mostrarsi infallibili? Perchè se è cosi liberatorio chiedere scusa è altrettanto difficile farlo? Cosa stiamo dicendo di cosi terribile a noi stessi nel momento in cui accettiamo di aver sbagliato? Da quale drammatica conseguenza proviamo a difenderci?
Sono passati pochi giorni dalla proiezione nei cinema del film “Il principe libero”, con la regia di Luca Facchini, interpretato da Luca Marinelli. Nonostante sia davvero un operazione onerosa frugare nel repertorio poetico di De Andre alla ricerca di intuizioni significative io nutro un personale affetto per l’espressione “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.” (Via del campo, 1967).
Mi ha colpito in maniera profonda come tutto ciò che ha il potere liberatorio di rappresentarmi pienamente nel pensiero e farlo con estrema semplicità.
A distanza di mezzo secolo, sbirciando nelle librerie alla ricerca di intuizioni altrettanto emozionanti, mi sono imbattuto nel saggio di Charles Pepin “Il magico potere del fallimento” attraverso il quale l’autore racconta cadute e risalite di personaggi noti con l’obiettivo di celebrare il ruolo del rischio e del fallimento come passaggi inevitabili per procedere verso un’evoluzione. In ogni ambito dell’esistenza. Accettare la nostra infallibilità è l’unico modo per poter integrare i nostri sbagli e correggerli. Semplice, evidente, quasi banale.
Ieri sera, dopo il lavoro, mi sono incontrato a cena con i soliti amici, quelli più stretti. Eravamo stanchi e silenziosi e come succede spesso in queste circostanze, ci siamo ritrovati a ricordare gli eventi di vita passati insieme. Non eventi qualunque, ma quelli in cui le cose non sono andate come pensavamo, le figuracce più vergognose, i treni persi, gli esami andati peggio, le relazioni più fallimentari, le scelte peggiori. Insomma i nostri fallimenti. E come spesso succede improvvisamente la serata diventa divertente tanto da perdere la cognizione del tempo. Dal nostro letame sono nati i fiori.
Per accreditarci il titolo di psicoterapeuti abbiamo dovuto studiare. Dopo la laurea abbiamo affrontato la scuola di specializzazione. Sono stati ulteriori quattro anni di approfondimenti teorici e pratici in cui i professori hanno cercato di trasferirci le loro conoscenze, la loro esperienza.
Ma le esperienze non si insegnano, sono tali perchè si basano sulla necessità di essere vissute, esperite appunto.
Cosi come è inutile insegnare ad un adolescente quali sono le giuste compagnie: farà esperienza e imparerà a selezionare. Non c’è altro modo.
I fallimenti sono passaggi naturali e indispensabili per poter compiere aggiustamenti e procedere verso un’evoluzione.
Sbaglio, mi scotto, aggiusto il tiro, mi evolvo.
Non accetto di sbagliare, mi ricomporterò allo stesso modo, rimango fermo
Mi piace pensare a questo articolo come uno stimolo per riflettere. Un invito a lasciarci cullare dalla riflessione sui nostri modi di affrontare un fallimento, piuttosto che darci una spiegazione sul perché succede: forse una risposta può rassicurarci ma non ci aiuta ad andare molto lontano.
“Ho comprato due hamburger e poi mi sparo un gelato alla vaniglia, lei?”
“Kebab e patate al forno”
“Buone!”
Arrivarono sul pianerottolo.
“Lo sai invece? Ce ne andiamo a cena fuori, io te e Lupa. A festeggiare”
“Cosa?”
“Che ti bocciano”
“E c’è da festeggiare?”
“Certo, non lo sapevi? Se uno festeggia le brutte notizie sta imparando a vivere…”
(da “Pulvis et Umbra” di Antonio Manzini. Sellerio Editore)