Ho sempre sentito una grande ammirazione per quella maternità “diversa” che, più che per le vene del corpo, passa per gli invisibili fili dell’amore per l’altro. Sarà perché mi è stato assegnato fin da piccola il ruolo dell’adulta, sarà perché faccio questo lavoro che prevede una costante espressione della funzione materna, fatto sta che provo grande rispetto per le donne e gli uomini che decidono di allevare e amare figli partoriti da altre donne.
Il mio lavoro e la vita stessa mi hanno mostrato che non è indispensabile partorire un figlio per amarlo. Ascolto centinaia di storie nel mio studio e molte di queste raccontano di nonne, zii, sorelle maggiori che hanno svolto la funzione materna in un modo eccellente, integrando e, qualche volta per necessità, supplendo al genitore biologico. Storie che parlano di un amore intenso e totale, proprio come quello di una madre.
Spazi come quelli affettivi e familiari sono talmente intimi che non a tutti è consentito accedervi, per questo mi sento una privilegiata tutte le volte che qualcuno mi sceglie per potersi raccontare e per raccontarmi da dove viene, chi è, com’è la sua famiglia.
E proprio la parola “famiglia” può spiegare, meglio di qualunque altra, l’assoluta naturalezza che sta alla base della scelta di adottare. Chi adotta allarga una famiglia, chi viene adottato la trova.
Qualche giorno fa, tra gli ultimi titoli usciti nel mese di aprile, uno in particolare, nella sezione “libri per bambini”, mi colpisce: Le parole per dirlo. Come raccontare l’adozione ai bambini.
per la collana Famiglie spaziali della Tau editrice.
Già decisa ad ordinarlo, mi accorgo che conosco entrambe le autrici, Maria Teresa De Camillis, conosciuta durante un tirocinio post universitario nella cooperativa San Saturnino di Roma, e Teresa Zaccariello, una carissima collega.
Con Teresa abbiamo frequentato la stessa scuola di specializzazione negli stessi anni, una di quelle relazioni che solo chi ha la nostra formazione può intuire, un rapporto in cui sai pochissimo della vita “sociale” dell’altro ma ne conosci quella emotiva, più profonda e autentica, una di quelle relazioni in cui le parole servono a distrarre più che a comunicare e quindi vai oltre, nell’ascolto e nello sguardo.
Ebbene io lo sguardo di Teresa lo ricordo bene.
Quando ho visto il suo nome sul libro non ho esitato un secondo di più, l’ho preso e l’ho letto. Nelle ultime pagine, poi, trovo tra i ringraziamenti anche il nome di un’altra amica, Simonetta Felli, una persona dotata di una vivacità e una curiosità travolgenti!
Prima Teresa e poi Simonetta, non può essere un caso, è un segnale, e penso “Teresa! Da quanto tempo non la vedo, mi farebbe piacere incontrarla: la chiamo.”
Così è stato, ed è successo che nell’era dell’amicizia virtuale, delle parole scritte, delle emozioni che passano per bidimensionali minuscole facce gialle, ci siamo viste per pranzare insieme, raccontarci a che punto sono le nostre vite e discutere di questa bellissima creatura che è il suo terzo libro.
Provo a mettermi nei panni di chi ha bisogno di questo libro, parto dal principio e mi faccio spiegare i percorsi dell’adozione, quello nazionale e internazionale, le chiedo dei tempi.
Più o meno un anno per passare la prima fase, quella dell’idoneità della coppia, poi inizia la vera e propria attesa che può durare da pochi mesi fino ad un massimo di tre anni.
E se in questi 3 anni non si viene selezionati si può ripresentare la domanda. A conti fatti un’eternità se si pensa che in questo tempo si viene valutati e selezionati. L’adozione è un viaggio durante il quale la propria vita e quella della coppia viene verificata e approfondita più volte e con accuratezza.
Mentre Teresa parla mi rendo conto che nella mia mente si accavallano immagini di film e di libri e che l’idea che ho dell’adozione probabilmente è condizionata, datata e forse infarcita di stereotipi, che gli esempi che conosco di figli adottivi sono tutti adulti e che so poco o nulla di cosa voglia dire “adottare” oggi.
Allora le domando come è cambiata la famiglia adottiva negli ultimi 30 anni.
Mi dice che è cambiata moltissimo, nella legislazione, che oggi tende a difendere gli interessi del minore e i suoi diritti più che quelli della coppia; è cambiata nelle coppie, che arrivano all’adozione dopo numerosissimi tentativi di PMA e quindi dopo un tempo maggiore e uno stress psicofisico notevole, ma soprattutto è cambiato il lessico e il modo di pensare e parlare di adozione.
Dal tabù si è passati a parlarne molto, talmente tanto che forse si rischia di perdere il fuoco del problema e di patologizzare qualcosa che dovrebbe essere “normale”
Ecco, questa parola, “normale” mi colpisce, una parola difficile da pronunciare quando si parla di famiglia, relazioni, sentimenti, e che in questo libro viene usata non per indicare una statistica, una regola, ma per segnalare una possibilità; a questa parola le autrici dedicano anche un capitolo Il potere della normalizzazione, dove si legge: “troppo spesso al tema dell’adozione ci si avvicina con una lente di ingrandimento per scovare patologie, comportamenti, problemi, sindromi che finiscono col condizionare sia gli adulti che i bambini.”.
Dico a Teresa che leggendo questo libro emerge in figura un bambino che possiede una sua saggezza, differente da quella della coppia adottiva, né migliore, né peggiore, semplicemente diversa. Quasi che le parole per dirlo, in fin dei conti servano più agli adulti che ai bambini.
Teresa annuisce pensierosa e aggiunge che un’adozione riuscita è quella in cui si riesce a creare lo spazio per una narrazione che tenga in considerazione le innate capacità del bambino e, contemporaneamente, le naturali paure dei genitori.
Tutte le parole vanno bene se adattate alla capacità del bambini di decodificarle, come si legge nel capitolo Cervello, mente ed educazione: “i bambini hanno bisogno di pensieri semplici, obiettivi, essenziali”.
Il resto riguarda i timori degli adulti di non essere adeguati.
In un testo che si pone l’obiettivo di aiutare i genitori a trovare le parole giuste, le autrici non cadono nella trappola della semantica, della direttività e così non ci indicano le parole “da dire” ma quelle che possono aiutare i genitori “a dirlo”.
Uno dei pregi di questo manuale è che rivoluziona lo sguardo sull’adozione, se infatti da una parte viene dato al bambino un ruolo più attivo, dall’altra viene anche riconosciuta la difficoltà dei genitori nell’affrontare i sentimenti più imprevedibili dei piccoli. Le parole per dirlo in questo caso interessano non soltanto chi le riceve ma soprattutto chi le pronuncia e che, prima o poi, dovrà fare i conti con le proprie paure e insicurezze se vorrà riuscire a stare accanto a quelle del proprio figlio.
Illuminato dal pensiero montessoriano, questo libro vuole sottolineare l’importanza del sostegno e dell’accoglienza tanto dei vissuti dei bambini quanto di quelli dei genitori adottivi
Parole come “gradualità” e “normalizzazione” sono bussole per fare sentire ai genitori che questo percorso ha un naturale bisogno di tempo e spazio, che anche nell’adozione, la genitorialità non è un fine ma un processo, da adattare costantemente ai passaggi dei bambini.
Teresa ci tiene a sottolinearlo:
“Non esistono parole giuste o sbagliate, solo le parole non dette fanno male. Quelle che consideriamo sbagliate, in realtà, ci danno la possibilità di ricucire, di rimodulare; se ascoltiamo e lasciamo spazio ai bambini, saranno loro a dirci cosa provano, di cosa hanno bisogno e, a quel punto, trovare le parole adatte sarà più semplice”
Con una rivoluzione copernicana, l’adozione viene raccontata dal punto di vista del bambino come parte attiva del percorso e non solo come fine ultimo del bisogno di una coppia; il bene del bambino è messo al centro senza metterne in discussione la sua forza, la sua resilienza e la sua capacità di dare senso.
“Riponiamo al centro il bambino, con il rispetto dei suoi tempi, delle sue emozioni e per farlo noi adulti abbiamo bisogno di fare spazio e ordine nel nostro contenitore emotivo.”
A Teresa Zaccariello e a Maria Teresa De Camillis va il mio ringraziamento per questo splendido lavoro che, oltre ad avere molti pregi, divulgativi, culturali e sociali, ha anche la straordinaria qualità di parlare ai grandi senza scordare che sono stati bambini e di parlare ai bambini tenendo presente che possiedono già gli strumenti per diventare adulti.
Esattamente quello che si dovrebbe fare in una famiglia.