Quelli in cui viviamo sono tempi comodi se siamo alla ricerca di qualsiasi servizio o prodotto. Qualsiasi informazione di cui abbiamo bisogno è letteralmente a portata di mano, ogni tipo di attività commerciale o professionale è rintracciabile in rete, anzi in molti casi non dobbiamo neanche cercarla, è lei che trova noi.
Le pubblicità, come gli avvisi, sono personalizzati in base alle nostre ricerche e alle abitudini che comunichiamo in internet. Facebook è il più grande bacino di dati personali che sia mai esistito nella storia e se teniamo presente i dati forniti dall’agenzia statunitense Mediakix* che ha calcolato i tempi che trascorriamo sui social, è evidente la necessità per qualunque professionista di ritagliarsi uno spazio sul web. Vi segnaliamo due dati in particolare che ci hanno impressionati:
mediamente ciascuno di noi passa sui social circa 2 ore al giorno, che in una proiezione sull’arco dell’intera vita vuol dire 5 anni e 4 mesi, mentre per bere e mangiare impieghiamo in media “solo” 3 anni e 5 mesi!
Per questo motivo la maggior parte delle professioni che prevedono una clientela si promuove on line utilizzando anche i social network. La psicologia e gli psicologi non hanno fatto eccezione. E questa è una buona notizia.
Questa è un’ottima notizia perché la professione di psicologo, come quella dello psicoterapeuta, risente di una atavica nube di mistero che attraversa diversi stati che vanno dalla figura del medico, al guru, allo sciamano, fino al terrificante “maestro di vita”! Probabilmente negli ultimi anni questo alone di intangibilità e misticismo si è parzialmente dissolto, anche perché l’esperienza della psicoterapia, per fortuna, è diventata sempre più diffusa e di psicologia applicata se ne parla più che in passato, quindi alcune domande fondamentali sulla professione di psicologo e/o psicoterapeuta hanno trovato risposta.
“Chi è?”, “a che serve?” e “cosa fa?”
sono interrogativi ai quali si è tentato di trovare soluzioni, magari non sempre univoche ma comunque anche alla portata di chi di terapia non ne ha mai fatta ma ha voglia o necessità di informarsi.
Per le prime due domande è stato più semplice trovare risposte, lo dimostrano i numerosi portali che elencano i nomi dei professionisti (accuratamente suddivisi per aree geografiche, formazione, ambiti di intervento, genere o età) e la varietà di siti specializzati dov’è possibile trovare informazioni sui temi della psicologia: disturbi, cause, sintomi e tipi di intervento sul quale orientarsi.
Il terzo quesito “cosa fa uno psicoterapeuta?” ovvero “come può aiutarmi?” rimane invece ancora avvolto nell’ombra più fitta e nel fornire una risposta a questa domanda ci si imbatte spesso in tentativi, francamente maldestri, di “mostrare” il nostro lavoro.
Internet è uno strumento meraviglioso perché dona un’inestimabile possibilità a chi lo utilizza: fornire dati e informazioni, e tra questi, come abbiamo visto, non fa eccezione chi è alla ricerca di un terapeuta.
A dirla tutta gli psicologi rispetto ad altre categorie sono sbarcati tardi sui social, confusi tra costi e benefici, segretezza e visibilità, tutela della professione e diritto ad una immagine social(e).
Oggi, social come Facebook, Twitter o Instagram ospitano anche un gran numero di terapeuti che con le loro pagine professionali e profili hanno trovato un altro spazio per promuoversi fuori da canali più istituzionali.
Ed è qui che si giocano alcune partite molto importanti per la nostra immagine: mantenere rigorosamente separate la vita personale da quella professionale e mantenere una voce autorevole anche in contesti più informali quali i social network.
Alcune precisazioni sono tuttavia indispensabili se vogliamo parlare di psicologi e internet. Molti colleghi che esercitano la libera professione hanno difficoltà a farsi conoscere e ad uscire dalle mura del proprio studio, dai confini dei propri contatti e una volta esaurito quel bacino diventa una necessità rivolgersi al web dove possono promuoversi per lo più con eventi gratuiti di una giornata, una settimana e certe volte addirittura mesi. Le fonti di invio (un termine usato tra psicologi per indicare la rete che fa il nostro nome indicandoci come professionisti qualificati ai quali rivolgersi) si dividono in linea di massima in quattro aree:
• Colleghi
• Istituti e/o associazioni con cui si collabora o si è in contatto (scuole, ospedali, onlus, associazioni, ecc..)
• Pazienti ed ex pazienti
• Radio, tv, riviste, web (siti personali, siti specializzati, social, ecc..)
Le prime 3 aree possiamo considerarle passive, conducono a noi senza una nostra azione diretta: c’è qualcuno che ci conosce professionalmente e fa da intermediario fornendo il nostro nome. L’ultima è quella attiva, quella sulla quale il professionista ha un’azione diretta: scrivendo, producendo contenuti, proponendo laboratori o seminari gratuiti e non, in poche parole autopromuovendosi.
Una volta avviata la professione diventa fisiologico orientarsi su progetti diversi e lasciarsi alle spalle il “gratuito”. Le ragioni sono molte: la mancanza di tempo prima tra tutte. Quando le prime tre aree funzionano perché il tuo lavoro è uscito dalle mura del tuo studio attraverso l’esperienza, il passaparola dei tuoi pazienti, dei docenti che ti hanno formato, dei supervisori o dei tuoi colleghi, gli spazi sull’agenda si riducono e l’autopromozione diventa accessoria: ci pensa la tua professionalità.
L’immagine di terapeuta autorevole ed efficace viaggerà sulle proprie gambe.
Questo non vuol dire smettere di informare o di dedicarsi a chi non può permettersi i costi della terapia. In molti dedicano una parte del proprio tempo a chi non ha i mezzi economici sufficienti investendo una quota del proprio lavoro pro bono (in assenza di compenso): deontologia e passione per questo lavoro possono fondersi in un concetto che, travalicando i confini del proprio bisogno di farsi conoscere e lavorare, incontra esclusivamente il bisogno dell’altro in un più ampio concetto che è quello della “responsabilità”.
E di responsabilità ce ne vuole molta anche quando a ragione di una giovane età o di una maturità terapeutica che tarda ad arrivare, si rende necessario mostrarsi, farsi conoscere a costo zero. Detto brutalmente: mettersi sul mercato.
Lavoriamo sull’intimità e non è merce che può stare in vetrina, ci occupiamo di relazione sia con se stessi che con gli altri, sono contenuti che non possono essere mostrati.
In altre parole, stare sul mercato può assumere per noi terapeuti esclusivamente due funzioni: farci trovare e permettere a chi ne ha bisogno di trovarci. Quando la presenza di un terapeuta sul web non risponde ad almeno una di queste funzioni vuol dire che c’è qualcosa che non va. Internet può essere per noi un efficace strumento di comunicazione e informazione, quando diventa un palcoscenico sul quale ci si muove da protagonisti, smette di essere utile alla professione perché ci sposta dal nostro ruolo che è quello di promotori e facilitatori di benessere.
Per fortuna abbiamo un Ordine che, per quanto può, vigila sull’immagine e la credibilità della nostra professione. Tuttavia tocca principalmente a noi psicologi riconoscere i confini dentro i quali muoverci, individuando sia possibili strumentalizzazioni da parte di terzi, sia eventuali temi irrisolti che riguardano il nostro “io bambino” (tratti narcisistici, bisogni di approvazione..) e che non devono ricadere su chi cerca un aiuto concreto in un terapeuta.
Nell’epoca in cui il verbo “condividere” ha assunto il significato di “pubblicare” uno stato su Facebook, mostrare le nostre vite, approvare con un like quella degli altri,
si rende necessario per la nostra categoria prestare ancora più attenzione ai confini della nostra riservatezza. Oggi la nostra responsabilità non si esaurisce all’interno del setting terapeutico con i nostri pazienti; ne abbiamo un’altra, collettiva e sociale, che riguarda il dovere di tutelare la professione attraverso l’immagine che mostriamo di noi anche dentro il web.
* http://mediakix.com/2016/12/how-much-time-is-spent-on-social-media-lifetime/#gs.614uce4
Studio di Psicologia Pratica.