Quando ero ragazzino mi ricordo che i miei giochi preferiti erano quelli che avevano un punteggio e che quello che mi stimolava e mi spingeva a farli era la presenza di una sfida, un limite da superare o qualcosa da dimostrare. Lo faccio ancora adesso e la cosa mi diverte ancora.
Vincere non è una condizione necessaria per rendere il gioco divertente, la sconfitta è parte integrante del gioco stesso. È la convinzione che sto competendo per qualcosa ad essere stimolante. Mi piace ancora oggi fare gioco di squadra, collaborare, per sfidare un’altra squadra e gareggiare per la vittoria.
Un vantaggio secondario dei comportamenti competitivi è la possibilità di esprimere aggressività in una cornice definita da regole scritte e senza timore di ripercussioni sul piano relazionale.
Competere e cooperare sono due atteggiamenti comportamentali molto diversi, in alcuni aspetti completamente opposti; come tutti i comportamenti che mettiamo in atto sono innescati da bisogni specifici.
La collaborazione è la risposta alla necessità di affiliazione e di vicinanza che ci spinge a unire le forze con altri individui per raggiungere un obiettivo più facilmente. In alcuni casi la ricompensa andrà suddivisa più o meno equamente tra i membri del gruppo, in altri non sarà necessario.
Ad esempio un gruppo di lavoro che collabora ad uno stesso compito potrebbe dover dividere la commissione economica, diversamente un gruppo di studenti che collabora studiando insieme non otterrà un beneficio suddivisibile ma una ricompensa individuale (un voto migliore).
A differenza della collaborazione, la competizione è una scelta figlia della necessità di primeggiare.
Reputiamo il premio non divisibile o la divisione non soddisfacente. Un esempio sono i giochi a somma zero in cui la vittoria si raggiunge solo in seguito alla sconfitta dell’altro (il tennis, gli scacchi).
Tuttavia, anche quando si compete, le ragioni possono essere molto diverse. I motivi che ci spingono a farlo sono sostanzialmente due. Il primo è la voglia di vincere, e non necessariamente è legata alla posta in palio. Se la domenica mattina esco vittorioso dalla partita di calcetto con gli amici la mia vita non ne guadagna molto, ma l’agonismo (da quattro soldi, considerando la qualità del gioco espressa!), fa comunque parte di quel rito di sessanta minuti che rende il gioco così divertente e appassionante. Il desiderio di vittoria in questi casi si collega ad una parte ludica: competo perché ci divertiamo tutti.
La seconda motivazione che può spingere una persona a competere, è una motivazione letteralmente opposta alla prima: la paura di perdere, ovvero la necessità percepita di dover preservare qualcosa dalla volontà altrui di impossessarsene.
Se la voglia di vincere è alimentata da entusiasmo e desiderio, la paura di perdere, al contrario, si nutre di sentimenti di insicurezza.
La posta in palio non è più né il premio, né l’obiettivo da raggiungere. Ci si gioca qualcosa di diverso, qualcosa di ancora più intimo. Sul piatto c’è una parte della nostra identità. Chiunque di noi ha conosciuto una persona che si esprimeva in modo critico nei confronti degli altri in maniera aprioristica: “sì ma è ingrassato”, “appena apre bocca capisci che razza di stupido sia”, “quello non ha combinato niente”, “quell’altro se ha combinato qualcosa lo deve ai soldi del padre”. Credo che lo abbiate presente un tipo così. E se non ce l’avete, molto probabilmente è perché siete voi. (E ora starete pensando che avreste scritto questo articolo molto meglio di me!).
Questo bisogno di primeggiare e di voler rendere esplicito il messaggio “io sono meglio di lui” (o “lui è peggio di me”, per rendere omaggio ad un film cult), è spesso il risultato di una perenne sensazione di essere mancanti o non all’altezza. È in questi casi che essere competitivi perde la sua funzione costruttiva, ludica e stimolante, diventando un atteggiamento che serve a sfuggire alla possibilità che qualcuno possa accorgersi di una nostra debolezza o una fragilità. Perdere significa in questo caso mettere in discussione chi siamo o scalfire l’immagine che speriamo di proiettare agli occhi degli altri.
Per questo, la competizione, alimentata dalla paura, rende la sconfitta una opzione assolutamente non contemplabile e un dramma dal quale è impossibile rialzarsi, piuttosto che una risorsa da cui imparare per crescere e affrontare una nuova sfida.
Chi vive questa dimensione competitiva, ha smarrito, o sarebbe più giusto dire che non l’ha mai conosciuto, un incondizionato sguardo benevolo e accettante, probabilmente ha dovuto dimostrare di essere il primo per sentirsi meritevole di amore e forse, è ancora alla ricerca di quella sicurezza.
Il percorso che porta alla maturità, alla crescita e alla consapevolezza emotiva è una storia fatta di sconfitte, amare, dolorose, irritanti e di amorevole accettazione di quel “secondo posto”.
D’altronde, non troverete mai una storia di eccellenza che sia fatta di sole vittorie, e se mai doveste trovarla, non fatevi trascinare nella gara, perdereste anche in caso di vittoria!
Per cui buona competizione e, come si usa dire nel pugilato, “fuori i secondi”!